Pubblichiamo qui di seguito le prime sedici pagine del saggio Il basso rossiniano. Primi interpreti, nuove voci, di Giorgio Appolonia.1 Nei post successivi, gli iscritti a pagamento potranno leggere l’intero volume. L’edizione cartacea è acquistabile qui.
PREFAZIONE
Pesaro per Rossini, Rossini per Pesaro
Sono sindaco di Pesaro da cinque anni. Il mandato è incominciato il 30 maggio 2014, riconfermato il 26 maggio di quest’anno. È stata e tuttora si rivela un’esperienza straordinaria, in quanto Pesaro è una città di valore culturale e turistico dotata di grandi potenzialità. Non a caso nel 2017 ha ottenuto dall’Unesco il riconoscimento di Città Creativa per la Musica, avendo avuto tra le principali motivazioni della candidatura proprio l’impegno nella diffusione, promozione e rivisitazione dei lavori di uno dei più grandi compositori di tutti i tempi, Gioachino Rossini, che vi è nato il 29 febbraio 1792. Dunque una città che vive di musica ed attraverso la musica ha il desiderio di sviluppare anche la propria autonomia. Fin dall’inizio del mandato mi sono trovato immerso in un’effervescente tradizione in ambito musicale grazie all’attività del Rossini Opera Festival, il cosiddetto rof, uno dei festival più importanti al mondo creato da Gianfranco Mariotti e giunto quest’anno alla quarantesima edizione. Sappiamo che il Rossini Opera Festival ha contribuito ad una sostanziale rilettura filologica di molte opere del nostro amato concittadino, alcune delle quali poco rappresentate in tempi recenti e che ora sono tornate stabilmente – nel quadro della cosiddetta Rossini Renaissance – nel repertorio delle maggiori istituzioni teatrali del mondo. In questa direzione abbiamo moltiplicato sia gli eventi che gli spazi dove far musica. Nel centro storico esiste il Teatro Rossini, inaugurato con la denominazione di Teatro Nuovo a partire dal lontano 10 giugno 1818 con La gazza ladra curata da Rossini stesso come omaggio alla città che gli ha dato i natali. Questo teatro ha una capienza di 860 posti, con una sala progettata con la classica forma a ferro di cavallo a quattro ordini di palchi più il loggione. Oltre a tale edificio fanno parte del Rossini Opera Festival sedi quali la Vitrifrigo Arena, un impianto polivalente che ospita eventi teatrali e anche sportivi di livello internazionale inaugurato nel 1996; l’Auditorium Pedrotti, la cui data di fondazione risale al 1892 ed il Teatro Sperimentale, realizzato nel 1965 all’interno del Municipio della città e costituito da una sala con 496 posti e da una saletta da 75 posti. Passeggiando per le vie del centro, in direzione della Casa Natale di Rossini si offre l’opportunità di respirare un’atmosfera particolare perché di recente abbiamo installato la filodiffusione che in alcune ore della giornata permette l’ascolto del Barbiere di Siviglia, della Semiramide, del Guglielmo Tell e di altri capolavori noti e meno noti traendone emozioni suggestive. Dal 2015 Casa Rossini, oggi al 34 di via Rossini, una volta via del Duomo, si presenta completamente rinnovata grazie ad un importante intervento di riqualificazione che ha ampliato gli spazi e reso protagoniste le tecnologie dell’ultima generazione. Alla superficie espositiva si è aggiunto il secondo piano per ospitare documenti di interpreti e opere rossiniane e mostre tematiche temporanee. Oltre alla sala audio e video, nuovi contenuti e materiale grafico digitalizzato quali spartiti autografi e lettere sono consultabili su touch screen lungo il percorso. Inoltre apposite postazioni consentono l’ascolto di registrazioni sonore di documenti e lettere, così da comprendere al meglio le vicende non solo artistiche ma anche biografiche e quindi umane del compositore. Mi piace ricordare che anche il balconcino sulla facciata in periodo di Festival diventa sede di spettacolo essendo piattaforma di lancio per i giovani allievi dell’Accademia Rossiniana che si esibiscono per il piacere dei visitatori che transitano nei paraggi. A proposito dell’Accademia Rossiniana, si tratta di un’istituzione ideata e diretta da Alberto Zedda nel 1989 ed a lui intitolata dopo la sua morte, che ospita annualmente una ventina di giovani cantanti provenienti da tutto il mondo e li specializza nel Belcanto rossiniano, finalizzandone la preparazione all’esecuzione del Viaggio a Reims nella storica edizione diretta per quel che riguarda la parte scenica da Emilio Sagi.
Attualmente il nostro impegno è rivolto alla riqualificazione totale del vecchio Palazzetto dello Sport che verrà attrezzato come un modernissimo auditorium per la musica: l’Auditorium Scavolini. Sarà dotato di duemila posti e la sua ultimazione si renderà fondamentale per reintrodurre nel centro-città/centro-mare la totalità delle manifestazioni relative al rof, attualmente in parte ospitate, come citato, alla Vitrifrigo Arena.
Da ultimo mi preme ricordare che nell’anno corrente è stato finalmente inaugurato anche il Museo rossiniano: un grande investimento per noi, realizzato anche grazie alla collaborazione della Fondazione Cassa di Risparmio. La sede è situata nel piano nobile di Palazzo Montani Antaldi, una dimora patrizia fatta costruire dalla famiglia pesarese con diversi interventi tra il xvi e il xix secolo. Il Museo si inquadra come un unicum dato che non esistono al mondo altre collezioni pubbliche relative a Rossini. Ecco che il percorso Casa Rossini-Museo Rossini si configura come un appuntamento imperdibile per il visitatore, analogamente al Teatro Rossini che si rende protagonista non solo durante le recite operistiche, ma anche quando apre i propri battenti per le visite con guide che ne illustrano l’architettura e la storia. In pratica abbiamo aggiunto anno dopo anno eventi e spazi che potremmo definire ‘catalizzatori’ senza venir meno alla qualità delle proposte. È un dovere che ci sentiamo di perseguire perché Gioachino Rossini ha lasciato la sua intera eredità alla città natale: un dato storico ed inappuntabile, riconosciuto dai pesaresi come grande gesto di amore da parte di uno dei più grandi artisti di sempre.
Matteo Ricci
Sindaco di Pesaro
(agosto 2019)
INTRODUZIONE
Una voce m’ha colpito
Sono pochi, oggi in Italia, i libri su Rossini, quei libri ricchi e veri che non si accontentino di ritagliarsi un certo settore e andarvi così a fondo da scordarsi degli altri settori. Figurarsi allora i libri sul canto, sulla voce, sull’arte e sulla tecnica, su come si cantò quel Tancredi a Venezia nel 1813 e come s’è cantato quel Barbiere di Siviglia a Macerata nel 1980. E i libri su qualche angolo o addirittura elemento della vasta scuderia canora di Gioachino? Manco articoli, si trovano, a meno che non vogliano dimostrare, anzi svelare al mondo che Pinco non nacque nel 1795 ma nel 1796 o Pallino morì non a Milano città ma in provincia di Milano. «Bisogna aver coraggio, / o cari amici miei, / e i [lor] misfatti rei / scoprir potremo allor»: a donn’Anna e don Ottavio lo canta donn’Elvira, presso il divino terzetto delle maschere del Don Giovanni, e lo canticchio anch’io a Giorgio Appolonia, io che un Rossini l’ho pubblicato nel 1986 e dopo varie ristampe l’ho riedito nel 2018, allungato e aggiornato, a un caro amico che ha già dato alle stampe Il tenore rossiniano e ora non lascia ma raddoppia con questo Basso rossiniano.
Difficile raccontare il tenore, che si sa essere stato eroe magnanimo, giovanotto pieno di sentimento, padre conformista, nemico per la pelle, seduttore incallito e altro ancora; ma difficilissimo passare al basso, che nel primo Ottocento, in epoca per quanto tarda ancora belcantistica, prima dell’avvento di Verdi e Wagner, aveva più facce, molte espressioni, tanti aspetti da invadere anche il territorio tenorile (la scrittura di Fernando, nella Gazza ladra, si prestò anche alla voce di tenore, abbandonando Filippo Galli e abbordando Andrea Nozzari). Ma il fatto che il protagonista di Oberto conte di S. Bonifacio e il Pagano dei Lombardi alla prima crociata di Verdi siano ancora disposti tanto al basso quanto al baritono, dimostra quale elastica situazione si trovasse davanti Giuseppe negli anni Quaranta, e il fatto che Wagner abbia distinto Hoher Bass e Tiefer Bass per Wotan o Gunther e Fafner o Hagen qualcosa vorrà pur dire, tra basso acuto e basso profondo (se poi Wotan e il nemico Alberich sono entrambi bassi acuti questo significherà altro ancora). E Boris Christoff non cantò mai Die Walküre per intero, in quanto parte troppo acuta per lui, ma solo il sublime ed evidentemente a lui più comodo finale.
Il basso Christoff è stato un grande Mosè, ma avrebbe potuto essere un grande Faraone? Forse così, con tanta arte, ma per Rossini Faraone era un basso ‘cantante’, cioè chiaro, belcantistico, adorno, melodioso, mentre Mosè era il basso autentico, scuro, declamatorio, sillabico, vero profeta buono di fronte a un semplice sovrano cattivo. In tal senso Mosè collegava il Sarastro di Mozart al Fiesco e al Guardiano di Verdi, magari mediante l’Oroveso di Bellini e il Faliero di Donizetti, e in Rossini era quasi una rarità. Prima indispettito, poi sorpreso e infine ammirato, Stendhal ebbe l’impressione che Michele Benedetti, il primo Mosè egizio nel 1818, fosse addirittura il Mosè di Michelangelo!
Perché il più normale basso serio di Rossini è l’altro, quello del tipo appunto cantante, adattissimo al Conte Asdrubale (La pietra del paragone), al Duca d’Ordow (Torvaldo e Dorliska), a Maometto II, ad Assur (Semiramide), anche a paralleli personaggi comici come Mustafà (L’italiana in Algeri) e Selim (Il turco in Italia) oppure semiseri come il Fernando della Gazza ladra e il Califfo di Adina: gran coloratura, cantabilità e tessitura medio alta. Vi brillarono Filippo Galli e il suo successore Luigi Lablache, duettando e litigando con i bassi comici, bassi buffi, buffi senz’altro. Ed erano, tutti costoro, bassi ‘intelligenti’, sebbene non sempre, e bassi sciocchi, imbalorditi, sempre sopra le righe: per esempio Selim-Don Geronio e Dandini-Don Magnifico nella Cenerentola, dopo il Conte Robinson-Don Geronimo nel Matrimonio segreto di Cimarosa e prima di Malatesta-Don Pasquale nel Don Pasquale di Donizetti.
Quale, la scrittura del buffo? Quella di Germano (La scala di seta), del Signor Bruschino, di Taddeo, di alcuni ‘Don’ come Bartolo, Profondo, appunto Geronio e Magnifico: poca coloratura, niente melodia, sillabato sempre più fitto (stessa nota tante volte), estensione medio acuta (quasi da tenore senza acuti), comicità e attorialità squinternata e strampalata, sui mille esempi di Paisiello e fino al Dulcamara di Donizetti (e un po’ oltre), con gradita frequentazione del napoletano. Vedansi, all’uopo, il Don Pomponio della Gazzetta e l’Isidoro di Matilde di Shabran, che in prima o seconda versione la lingua di Partenope dovevano saperla.
Luigi Zamboni cantava spesso parti del genere, e nella vicenda del romano Barbiere di Siviglia fu il primo Figaro. Figaro, non Bartolo come si crederebbe: perché il factotum della città era, sarebbe, è un basso comico, e la promozione a baritono vale come la promozione di Rosina da contralto a soprano leggero. Quando, nel pieno e tardo Ottocento, per colpa di Verdi i buffi cominciarono a sparire e per merito dello stesso nacquero i baritoni, per mantenere in vita quel capolavoro non ci fu altro espediente che quello di passarne il protagonista a Conte di Luna, Rigoletto e Amonasro (e quale contralto avvezzo a Ulrica o alla Cieca della Gioconda poteva permettersi tutta l’agilità di Rosina?). Ma il nobile baritono, pari merito di Verdi (titolari come Nabucco, Macbeth, Boccanegra, anche Falstaff) e di Wagner (Telramund, Wolfram, Kurwenal, Amfortas) non poteva esser sorto dalla plebe del buffo. E difatti derivava in buona parte dal basso cantante di Rossini e in una certa parte dal tenore ‘serio’ di Rossini stesso, visto che il tenore romantico non squillava più come Arnoldo né più scuriva come Agorante di Ricciardo e Zoraide, Otello e Rinaldo di Armida.
Dunque il dottor Appolonia ha avuto il suo bel daffare, a scovare il passato e auscultare il presente tenendo il filo per due secoli da Luigi Raffanelli e Henri-Bernard Dabadie a Enzo Dara e Nicolai Ghiaurov (per evitare squilibri, queste righe prefatorie si circoscrivono a nomi usciti dalla vita ed entrati nel paradiso dell’arte). Avrà letto e creduto, riletto e inteso diversamente, registrato la frase di un bravo Tobia o Gaudenzio e corretto il tiro mediante un’altra frase, di qualche Alidoro, Basilio, Ajo, Sidney. E avrà incontrato un artista della chiave di basso come Sesto Bruscantini, un rossiniano tuttofare che dopo tanti casi di Figaro e Dandini un bel giorno, il 3 settembre del 1980, s’è trovato a cantare il minor Batone dell’Inganno felice per farne un piccolo gigante e finire l’aria «Una voce m’ha colpito» con un soffio: e venne giù il teatro, che era il Teatro Rossini di Pesaro. A proposito: il personaggio è così poco simpatico, rispetto al caro Tarabotto, e l’aria così bella che Filippo Galli, un giorno, volle interpretare il solito personaggio di Tarabotto rubando l’aria all’impoverito Batone.
Ma nulla, nessuna difficoltà può nulla contro la passione, e Don Giorgio tirerà dritto per la sua strada fino alla chiave di violino, fino, esempio minimo, al Jemmy di Guillaume Tell. Con tutta l’amicizia di chi, come il sottoscritto, un bel giorno fu richiesto, per burla, di citare il basso rossiniano dei suoi impossibili sogni di cantore. L’Ombra di Nino, dissi vagheggiando la mia squisita Semiramide, magari col cachet di Assur.
Piero Mioli
Docente di Storia ed Estetica Musicale
PRIMI INTERPRETI
LUIGI RAFFANELLI
[Pistoia, 21 marzo 1752 – Milano, 1821]
Fino da fanciullo sentì trasporto pel teatro e fu (cosa rara specialmente in quei tempi) secondato in questa passione dal padre, un esemplare popolano; raccomandato nella sua puerizia a un Dott. Bernardino Vitoni il quale, come diligente raccoglitore di cose patrie, è da altri scrittori nostri ricordato, poté Luigi farsi udire in alcune recite che i filodrammatici Pistoiesi davano nel pubblico teatro, ove dié veramente a conoscere le disposizioni naturali di cui era fornito per sostenere le parti che diconsi comiche. [M. G. Rospigliosi, Notizie dei maestri ed artisti di musica pistoiesi, Pistoia, Niccolai, 1878, p. 30.]
Figlio di Antonio e Domenica Fabiani, Luigi Raffanelli viene battezzato il 21 marzo 1752 in San Zeno a Pistoia. Posto sotto la guida del cantore di cappella Renai il ragazzo svela immediate disposizioni per il teatro rispetto alla musica da chiesa. Gli occhi vivaci, il naso aquilino, la figura dinoccolata, l’espressione sorniona ed infine un registro anticonvenzionale di basso che raggiunge in falsetto note piuttosto stridule ma acute lo indirizzano ai ruoli di buffo parlante, definito anche barilotto o chiatto. Si tratta del protagonista di tante farse settecentesche nelle quali i passi melodici vengono riservati al buffo cantante, detto anche nobile o ‘toscano’. Mentre quest’ultimo si identifica in soggetti dalla varia umanità, il primo si orienta a figure di signorotti decaduti, padri pedanti e protervi, servi truffaldini, vecchi pazzi per amore.
Dopo un laborioso apprendistato nell’officina napoletana del Teatro dei Fiorentini, il debutto avviene sulle scene del San Sebastiano di Livorno il 26 dicembre 1778 con due atti unici di Giuseppe Gazzaniga: La vendemmia (Conte Zeffiro) e La vera costanza (Villotto). Di buon livello la compagnia di canto capitanata dal tenore bergamasco Giuseppe Viganoni.
Prima del 1782 Raffanelli si afferma a Vienna, stimato anche da Metastasio. Lo ricorda lui stesso il 31 ottobre 1812 alla proprietaria del “Corriere delle Dame”, Carolina Lattanzi: «Chiudo questa lettera esternandovi il mio dolore d’esser stato in Vienna a cantare per due anni in quel teatro imperiale, in un’epoca in cui più non viveva quel sommo poeta drammatico; altrimenti lo avrei ringraziato della buona opinione che aveva concepita di me per relazioni altrui, mentre nei miei giovanili anni, imitatore della natura, incominciava a calcare le patrie scene».
Nell’autunno del 1783 al Teatro San Samuele di Venezia prende parte alla prima esecuzione assoluta dello Sposo di tre e marito di nessuna di Cherubini: interpreta Don Pistacchio barone di Lagosecco che intrallazza con tre donne di diversa estrazione sociale e tutte sentimentalmente impegnate, cosicché alla fine rimane a bocca asciutta.
Dopo varie presenze a Napoli, Roma, Parma, Padova, nel 1784 viene scritturato alla Scala di Milano per la stagione estiva tradizionalmente destinata all’opera comica: accanto alla moglie Giulia Moroni è Cecchino nelle Gelosie villane di Sarti. In ottobre è la volta dei Due supposti conti ossia Lo sposo senza moglie di Cimarosa.
È ancora da segnalare la sua presenza come primo buffo caricato al Teatro Valle di Roma nel biennio 1787/1788, epoca in cui militano sulle medesime scene Carlo Rovedino e Carlo Angrisani, artisti chiamati all’esportazione del belcanto anche nel Regno Unito e in America. Accanto a loro i ruoli femminili sono incarnati da castrati per il divieto alle donne di mostrarsi in palcoscenico negli Stati della Chiesa. Il repertorio include opere quali Gli equivoci nati da somiglianza di Guglielmi, Le pazzie de’ gelosi di Anfossi, Li matrimoni per sorpresa di Platone: in quest’ultima Raffanelli interpreta senza mezzi termini il ruolo di Pirlone.
La guerra dei buffoni
La fama dell’artista raggiunge il top con la sua adesione al programma artistico varato da Maria Antonietta di Francia alla vigilia del fatidico 14 luglio 1789. Già prima della Rivoluzione Francese il teatro in musica a Parigi si scindeva in due filoni: l’opera nazionale e l’opera italiana, attecchita come genere a sé stante in ogni capitale europea. La cosiddetta Acâdémie Royale de Musique proponeva spettacoli spesso allineati ad un passivo conformismo, in una tradizione talora degenerata in routine. Di fatto non si raggiungeva il fanatismo come nell’affollatissimo Teatro Italiano, dove si offrivano spettacoli rinnovati alla luce delle mode interpretati dalle ugole d’oro provenienti dalla patria del belcanto. Tra i due enti, storicamente capitanati dai partiti di Christoph Willibald Gluck e di Niccolò Piccinni, si era scatenata una prevedibile rivalità degenerata nella cosiddetta Guerre des bouffons fra gluckisti e piccinisti.
Consigliatasi con il fratello del proprio parrucchiere, Léonard-Alexis Antier, Maria Antonietta affida la direzione del Teatro Italiano al violinista Giovanni Battista Viotti e ne pone il patrocinio sotto l’egida di Monsieur, ovvero suo cognato Louis Stanislas Xavier comte de Provence.
Il cosiddetto Théâtre de Monsieur, nella prima sede nella Salle des Machines delle Tuileries, viene inaugurato tra sfarzo e mondanità la sera del 26 gennaio 1789 con Le vicende amorose di Giacomo Tritto. Nella compagnia di canto radunata da Viotti il Raffanelli riveste l’impiego di primo buffo ‘caricato’ e colleziona una serie di affermazioni personali culminanti nei capolavori di Paisiello, come Re Teodoro e Il barbiere di Siviglia, e di Cimarosa, come L’impresario in angustie.
Col sopraggiunto Regime del Terrore la compagnia viene sciolta e gli artisti, timorosi degli sviluppi, preferiscono abbandonare la Francia. In settembre, durante una stasi delle turbolenze sociali e politiche, Raffanelli e compagni vengono richiamati all’ordine per riprendere il corso delle recite a cominciare dalle Nozze di Dorina di Sarti e La molinara di Paisiello.
Raffanelli si rende protagonista di pittoresche schermaglie anche fuori scena soprattutto per la rivalità con Stefano Mandini al quale un bel giorno recapita un cartello: «Signor cantante Mandini, ella m’ha offeso ingiustamente ed io esigo da lei una soddisfazione immediata. La sfido dunque a duello, e l’attendo domattina alle sette, al cancello del Bois de Boulogne. E lascio a vossignoria la scelta delle armi, giacché io sono pronto a battermi alla spada, alla sciabola, alla pistola ed al cannone!»2
Poi il tutto si conclude con un’ abbuffata di maccheroni. Nel frattempo dalla residenza di Versailles, covo di fermenti reazionari, Luigi xvi e famiglia sono ricondotti alle Tuileries. Va da sé che il prosieguo degli spettacoli trovi alloggio altrove: dapprima nella polverosa Salle des Varietés alla Foire Saint Germain, poi nella Salle di rue Feydeau. Così, all’ombra della ghigliottina, in funzione ufficiale dal 25 aprile 1792, Raffanelli si esibisce fino a 1793 inoltrato, dopodiché rientra in Italia non senza vivere una breve stagione viennese.
Il rimpatrio
Sceso a Venezia si esibisce al Teatro Giustiniani in campo San Moisè, poi al Vendramin in San Luca dove interpreta La locandiera, fra i primi lavori del compositore bavarese Giovanni Simone Mayr.
Ma è Napoli, città degli esordi, la piazza dove l’interpretazione di Geronimo nel cimarosiano Matrimonio segreto desta entusiasmo. Nel libretto di Giovanni Bertati i giovani Paolino e Carolina sono marito e moglie. Attorno a loro si agitano figure della tipica comicità settecentesca: Geronimo, padre di Carolina, avaro mercante e principale di Paolino, il conte Robinson, facoltoso pretendente di Elisetta, sorella dispettosa di Carolina, zia Fidalma, ricca vedova incapricciata di Paolino.
Cimarosa si rivela il compositore al quale Raffanelli lega i tratti più significativi della carriera e, quando il fecondo compositore di Aversa si spegne cinquantenne a Venezia l’11 gennaio 1801, avrà l’onore di presenziare alle solenni esequie in San Michele Arcangelo nel sestiere di San Marco.
Negli anni a venire la carriera del buffo si àncora ad alcune postazioni fisse: Parigi, dove torna all’inizio del 1801 e nel Matrimonio segreto costringe a «versare lacrime di gioia e commozione a tutta l’assemblea».3 Segue Milano, dove si esibisce nell’Autunno del 1804, ed infine Venezia agendo sia sulle scene principali della Fenice che su quelle modeste del San Moisè.
E proprio qui sul finire del 1810 si imbatte nel diciottenne Gioachino Rossini che attende alla stesura del primo cimento teatrale, La cambiale di matrimonio. Il narratore Fraccaroli sottolinea i forti dissapori fra l’imberbe maestrino e Raffanelli «affamato più di spaghetti che di gloria».4
La trama approntata da Gaetano Rossi prevede il facoltoso mercante Tobia Mill – il Raffanelli - alle prese con la figlia Fannì, promessa ad un corrispondente canadese, ma innamorata di Edoardo Milfort. Giunto dall’altro continente per concludere l’atto nuziale, Mr. Slook rimarrà beffato.
Mill si presenta nella sezione centrale dell’Introduzione in una cavatina bipartita «Chi mai trova il dritto, il fondo/ a cotesto mappamondo?»: tra latidudine e longitudine, terzieri e calamite sta scrutando un arnese che mal conosce per focalizzare il paese di provenienza dello straniero che, mediante una cambiale, ha acquistato Fannì. Poco dopo Slook arriva con il suo corredo di ruvide maniere. Lo scontro tra le personalità dei due è riflesso nelle opposte vocalità del buffo cantante (Slook) e parlante (Mill) in tre sezioni del duetto, tutte in Allegro: «Dite presto dove sta questa gran difficoltà?», «Questo è un procedere da americano», poi «Ecco il guanto: v’aspetto fra un’ora».
Mill è quindi chiamato ad avviare l’ampio finale della farsa con una scena comica in cui mima l’imminente duello con Slook che poi non avrà luogo. Dal recitativo «Oh, qui c’è sotto un qualche grande imbroglio» con cui si presenta, passa a un’aria piuttosto acuta in tono tribunizio «Porterò così il cappello», che confluisce alla ricomparsa del canadese in una esilarante chiusa a due: «Vedrete i torti miei com’io so vendicar», avviandosi con la pipa e non con la pistola in mano.
Dopo La cambiale di matrimonio l’8 gennaio 1812 sulle medesime scene del San Moisè Raffanelli prende parte anche all’atto unico dell’Inganno felice, un’ulteriore creazione rossiniana che, per l’intreccio della vicenda volto a toni sinistri, evade la definizione di farsa.
Questa volta è Tarabotto, un generoso minatore che accoglie Isabella, ripudiata dal Duca Bertrando perché ritenuta infedele. Il sicario Batone l’ha risparmiata e l’innocente duchessa è approdata alla miniera dove Tarabotto la presenta come nipote e alla fine la riconsegna tra le braccia del ravveduto consorte.
Sebbene goffo, Tarabotto è un personaggio d’animo nobile e la musica lo sottolinea svincolandone il canto dalle maniere dei buffi di tradizione: è il ruolo che più d’altri mostra la sensibilità di Raffanelli e degli interpreti che di seguito se ne sono appropriati. Primo fra tutti Filippo Galli che, creatore di Batone, rapidamente se ne impossessa nel prosieguo della carriera.
Primo punto focale del personaggio è l’introduzione agitata subito dopo la Sinfonia, quando apprende che il Duca Bertrando si avvicina. Dopo l’assolo di Isabella ha luogo il duetto «Agitata… mi confondo» fra la stessa e Tarabotto nel quale avviene l’agnizione. Appresa la verità le porge deferente omaggio quindi, animato da buon senso popolare, si attiva alla ricerca di una pronta soluzione.
Pagine altrettanto notevoli per arguzia e raffinatezza alle quali Tarabotto prende parte sono il terzetto «Quel sembiante, quello sguardo», gestito con Isabella e il Duca, nonché il duetto «Va taluno mormorando» con Batone.
Cronaca di un fiasco
Alla Scala di seta e all’Occasione fa il ladro, ulteriori farse rossiniane per il San Moisè di Venezia, Raffanelli non prende parte ritrovandolo protagonista nel Signor Bruschino, come l’Inganno felice su libretto di Foppa, tratto da Le fils par hazard di Alisan de Chazet e Maurice Ourry. La tradizione indica un suo massivo intervento nella composizione della partitura, motivato anche dal fatto che Rossini, per ripicca verso l’impresario che non lo ha liquidato a dovere per le precedenti fatiche, si rintana a letto fingendosi malato. Nelle sue memorie il compositore Giovanni Pacini ricorda:
Il vecchio Raffanelli andava sovente a trovare il maestro, il quale ripetevagli sempre la stessa storia, e pregava il precitato amico artista a suggerirgli delle melodie, onde poter principiare e condurre a termine il lavoro. Il Raffanelli, che pur voleva darsi l’aria di compositore, acconsentì, ed in tal modo cantava i pensieri che la fantasia gli dettava, ed il Rossini acclamando il novello Orfeo, com’egli il chiamava, scriveva, e così venne alla luce quell’accozzo mostruoso che si chiama Bruschino.5
La trama dell’opera può definirsi sconclusionata: Florville ama Sofia, pupilla di Gaudenzio che l’ha destinata in sposa al figlio scialacquone, da nessuno mai visto, di tal Signor Bruschino. Florville gli si sostituisce per impalmare Sofia. Sopraggiunge Bruschino padre e Florville continuando la sua commedia gli chiede perdono. Il vecchio scoprirà l’imbroglio ma, appreso che Florville è figlio di un acerrimo nemico di Gaudenzio, si vendica del tiro subìto e ne benedice l’unione con Sofia. Colpo di scena: ai rintocchi di una marcia funebre sbuca Bruschino figlio. La sorpresa di Gaudenzio diventa rabbia quando apprende di aver concesso Sofia ai nemici ma il dado è tratto e non resta che rassegnarsi.
Così il “Giornale Dipartimentale dell’Adriatico” del 30 gennaio 1813: «Un concorso d’ingegnosi ritrovati, e di fortuiti eventi, rende invero giocosissimi parecchi punti di scena; e la rabbia d’un padre cui si vuol dare un figlio per forza, potuto avrebbe far scrosciar dalle risa, massime coll’esecuzione dell’inimitabile Raffanelli, se tutte le molle servito avessero all’uopo».
È ancora Pacini a fornirci esilaranti dettagli sullo svolgimento della serata:
Alla prima rappresentazione il Pesarese, sapendo bene qual sorte gli spettava, volle per atto di bizzarria provvedersi di due piccoli Pulcinellini, al di sotto dei quali vi era un tondo di piombo che li manteneva in bilico, e che pose andando al cembalo dai due lati del leggio. L’Opera principiò: e ad una sinfonia stramba, nella quale immaginò che tutti gli strumenti a corda dovessero percuotere con gli archi i paralumi dell’orchestra (volendo con ciò imitare il segno che suol dare il primo violino prima d’incominciare lo spettacolo), seguiva l’introduzione, e di mano in mano gli altri pezzi. Il silenzio fu conservato dal pubblico alla sinfonia, ed anzi si rise della novità; ma in seguito il crescendo dei fischi fu simile al più fragoroso crescendo immaginato dallo stesso celebre Autore. Il Rossini, ogni volta che l’udienza disapprovava, percuoteva leggermente i due piccoli Pulcinelli, i quali, fatta un’umilissima riverenza, tornavano nella loro posizione. L’indignazione del pubblico giunse al colmo: ma l’illustre Maestro, da vero stoico, sopportava in pace l’oltraggio.6
In realtà nella farsa non mancano spunti di rilievo come l’aria di Sofia «Ah! Donate il caro sposo» concertata con il corno inglese, il terzetto «Per un figlio già pentito» tra Bruschino padre, Gaudenzio e Florville, e l’aria in realtà buffissima del protagonista «Ho la testa, o è andata via?» che assume fin dall’inizio la forma di un insieme al quale prendono parte altri personaggi. Nel finale, il breve assolo «Dei tiranni, i casi miei», Bruschino ‘fa il verso’ agli eroi dell’opera seria. A riguardo del protagonista il critico Azevedo associa l’usura vocale dell’interprete con gli intenti del compositore: «Per la voce d’anitra di Raffanelli, il prodigioso mistificatore aveva scritto le cantilene più eleganti, più delicate, più squisite, come se avesse ad esecutori castrati quali Pacchiarotti o Crescentini. E allo scopo di porre nel più alto rilievo le qualità vocali del detto Raffanelli, ebbe la cura garbata di non farle accompagnare che dai pizzicati del quartetto». 7
La situazione comica scaturisce proprio dallo stratagemma suggerito se non preteso dal sessantenne buffo che nel gennaio del 1814 si presenta ancora sulle scene del Teatro Re di Milano. Vi interpreta Il sarto declamatore di Ferdinando Orlandi al quale, secondo le consuete abitudini, chiede varianti specifiche sulle proprie attuali condizioni vocali. A proposito della Nemica degli uomini di Carlo Melara si legge sul “Corriere delle Dame” dell’8 gennaio: «Il papà, ed altri dicono il nonno degli attori comico-buffi, nella sua florida età di… anni si mosse come movevasi 40 anni fa, e cantò come cantava nell’età matura. Tutta Italia conosce questo modello, come comico, e quanto professore, come cantante. Possa egli vivere tanti anni nel secolo presente, per quanti ne visse nel secolo passato».
Nel 1815 si registrano le sua ultime presenze teatrali alla ribalta del San Benedetto di Venezia.
Scelta Milano a dimora, si spegne nel 1821 lasciando il ricordo imperituro di un interprete di riferimento nel repertorio comico.
Carriera rossiniana di Luigi Raffanelli
1810.03.11 - Venezia-San Moisè - La cambiale di matrimonio* - Tobia Mill
1812.08.01 - Venezia-San Moisè - L’inganno felice* - Tarabotto
1813.27.01 - Venezia-San Moisè - Il signor Bruschino* - Bruschino padre
* L’asterisco contraddistingue le prime interpretazioni assolute
Giorgio Appolonia (n. 1953)
Grazie alla propria formazione iniziale in Medicina e Chirurgia, ha approfondito lo studio della fisiologia e della vocalità belcantistiche del primo Ottocento, pubblicando otto monografie sui primi interpreti di Rossini, Donizetti, Bellini. Ospite regolare di convegni musicologici, è autore di originali radiofonici e di intrattenimenti musicali. Da vent’anni conduce settimanalmente “Il ridotto dell’opera” presso la Radio Svizzera di Lingua Italiana RSI-Rete Due. Da Lemma Press ha pubblicato Il tenore rossiniano (2019), Il soprano rossiniano (2021) e Il contralto rossiniano (2022).
Castil-Claze, L’Opéra-Italien de 1548 à 1856, Parigi, Castil-Blaze, 1856, p. 269.
Ivi, p. 293.
Arnaldo Fraccaroli, Rossini, Verona, Mondadori, 1941, pp. 39 e sgg.
Giovanni Pacini, Le mie memorie artistiche, Firenze, Forni, 1875, pp. 6-7.
Ivi, p. 7.
Alexis Jacob Azevedo, Rossini, sa vie et ses oeuvres, Parigi, Heugel, 1864, p. 70.